Gabriele Nenzioni & Giacinto Tortolani
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Ad oltre un secolo di distanza dalle precoci ricerche scarabelliane, il geologo Piero Leonardi dell’Università di Ferrara consegna alle stampe una sintesi sui depositi paleolitici emiliano-romagnoli. Il contributo, comparso nel primo volume di “Preistoria dell’Emilia e Romagna” (1962), stampato sotto l’egida della Deputazione di Storia Patria per le Provincie di Romagna in occasione del VI Congresso Internazionale di Preistoria e Protostoria, interrompe il silenzio scientifico perdurato per oltre settant’anni dopo l’ultima pubblicazione (1890) dedicata da Scarabelli a questo tema.
Il saggio contiene gli esiti di un intenso decennio di studi interdisciplinari promossi dall’Ateneo ferrarese a partire dai primissimi anni ‘50 su alcuni affioramenti posti nelle vallate ad oriente di Bologna e nel circondario imolese. Qui, per muoversi in un territorio a lui sconosciuto, Leonardi aveva ricercato la collaborazione di Raimondo Selli dell’Ateneo felsineo, di Bruno Accordi dell’Istituto ferrarese di Geologia e Mineralogia e del naturalista Luigi Fantini, buon conoscitore del Paleolitico locale.
Gli scavi condotti nel 1953-1955 in un deposito ciottoloso presso il podere Suore, sulla sponda destra del Correcchio, avevano enucleato, e permesso di attribuire alle fasi finali del Paleolitico inferiore, due distinti tecnocomplessi connotati da elementi di tecnologia arcaica (scheggioni clactoniani e grosse amigdale abbevilliane) associati ad altri, più evoluti, di tipologia acheuleana e protolevallois.
Nel 1975 Carlo Peretto e Mauro Cremaschi, in una circostanziata relazione presentata nell’ambito della XIX Riunione Scientifica IIPP, mettono a punto un nuovo quadro interpretativo dei complessi paleolitici regionali interfacciandoli con assetti geomorfologici ed evidenze pedogenetiche. Nella medesima sessione trova anche spazio una comunicazione sulle industrie del T. Sabbioso (Toscanella) segnalate dal ricercatore locale Paolo Bignami. Gli insiemi “arcaici”, in deposizione secondaria entro depositi ghiaiosi, sono ricondotti al glaciale Mindel, mentre grazie ad accertamenti stratigrafici sulle unità terrazzate del margine appenninico si relazionano i numerosi reperti a spigoli vivi di tecnica levallois, associati a rari bifacciali, a depositi loessici frutto di condizioni climatiche arido-fredde del «cataglaciale rissiano».
La recente individuazione di un complesso litico nel podere Calanco in comune di Dozza estende verso oriente il quadro di Peretto e Cremaschi e, al contempo, stabilisce interessanti correlazioni con le “pietre lavorate a grandi schegge” imolesi descritte in più di una circostanza da Scarabelli con grande padronanza terminologica.
In questo sito le diverse unità pleistoceniche, profondamente incise dal rio Sellustra, hanno restituito reperti tipologicamente riconducibili a episodi di frequentazione durante la fase media del Paleolitico. In assenza di accertamenti stratigrafici, si può ipotizzare la persistenza di almeno due complessi in situ: il primo, emergente dai limi posti al tetto del substrato ghiaioso del terrazzo del podere Calanco, è composto da un bifacciale spesso a base corticata e da grandi schegge trasformate in raschiatoi (MIS 8-7). Il secondo gruppo, più significativo (c.a. 200 unità), proviene dai limi di copertura e denota il pieno sviluppo dei metodi levallois e di un débitage tendente alla riduzione delle dimensioni generali dei supporti, degli spessori e della laminarità dei prodotti su scheggia. La sua cronologia può essere ricondotta a una fase più recente del Paleolitico medio (MIS 6-4).
Il tecnocomplesso del podere Calanco si inserisce a pieno titolo nelle problematiche interpretative del primo popolamento padano-orientale, dove flussi di frequentazione brevi ed effimeri e siti a “low human impact” contrassegnano il corso del Pleistocene medio-superiore.